“you are not a robot”

Ma sono l’unico a non acchiappare un captcha al primo colpo? Alcuni (beh, onestamente abbastanza spesso) li trovo assolutamente illeggibili, mi cimento in rotazioni innaturali di capo e monitor, zoom da miopia avanzata, ed anche la “versione audio” spesso non aiuta affatto. Preso quindi dalla fretta e dall’ira funesta lo ricarico finché non lo risolvo e poi non ci penso più fino al prossimo. Questo Dilbert, ovviamente, mi ci ha fatto soffermare l’attenzione.

Oltre a trovarli spesso incomprensibili li trovo, praticamente sempre per gli usi che ne faccio, sovradimensionati per la funzione che devono svolgere: trovare 8 volte le immagini con macchine, le colline o i semafori per cancellarmi da una mailing list? O preferite stringhe alfanumeriche illeggibili (per un robot tanto quanto per me) per registrarmi ad un qualche sito?

Capisco che nell’era digitale la sicurezza sia tutto, ma mi sembra un sistema (ovviamente perché non riesco a risolverlo al primo colpo) farraginoso ed involuto. D’altra parte non eravamo già andati oltre qui?

Mi chiedo, inoltre, davvero non esiste un qualche bot in grado di risolverli? Davvero solo il nostro (vostro) acuto occhio trova tutte le biciclette in quelle dannate immagini o riconosce la b deforme da un 6? Ah, che sia chiaro, i captcha sono comunque generati da robot (o forse da moron? 🙂 )

Mi aspetto che anche gli agenti per l’online banking, i customer care, i pokeristi telematici e via dicendo prima o poi debbano passare un esame di captcha per poter lavorare. Consisterebbe in una serie di numeri-lettere a caso di decriptare ad occhi bendati… con l’aiuto di un computer.

WU

Project Hazel

Fino ad un annetto fa (o poco più) era un oggetto quasi fetish, per qualche eccentrico, visto indosso a chi aveva particolari patologie o abitudine di paesi lontani (mi colpivano, prima ripeto, i giapponesi in vacanza che la indossavano sempre…), oggi la mascherina è una parte normale della quotidianità praticamente di tutti noi.

Ci sono mascherine per tutte le forme e dimensioni, colori e stili, anzi recentemente (per me che non sono propriamente un tipo alla moda) ne ho viste anche in vendita abbinate a borse o vestiti.

Mi ha comunque colpito (e non propriamente in senso positivo… la trovo alquanto tamarra) questa mascherina proposta al recente CES. E’ una mascherina dallo stile futurista che ci protegge senza mascherare il nostro viso (e questo, se implementato con un po’ più di sobrietà non sarebbe neanche male…). Ha una specie di tonalità traslucida (credo esista un una variante chiara ed una scura). Abbonda di led ed ha due dischi ai lati della bocca per la ventilazione ed il filtraggio dell’aria. E’ una mascherina “classe N85”, ovvero filtra in 95% delle particelle volatili (Covid-19 incluso) grazie ai due filtri che l’associata app ci ricorderà periodicamente di cambiare.

Non contenti di tutto ciò, i suoi ideatori l’hanno equipaggiata anche con dei microfoni che captano la voce all’interno e la diffondono mediante altoparlantini integrati all’esterno. Ci sentiranno senza alcuno sforzo. Ed ancora qualche altro led di accompagnamento, 16,8 milioni di sfumature per “personalizzarla”…

Pare sia resistentissima ai graffi, acqua e polvere, e per sanificarla ha la sua praticissima (onestamente mi pare enorme…) scatola/custodia con luci UV sterilizzanti.

Insomma, se nelle intenzioni sarebbe anche una cosa “del futuro”, nella pratica mi sembra una cosa abbastanza kitsch da pista disco o esibizioni EmmyAward. D’altra parte è stata proposta dalla Razer… azienda di gaming (che tuttavia ha convertito da subito alcune sue linee di sviluppo alle mascherine facciali fin dalla prima ondata del Covid-19), non certo di abbigliamento di “stile”.

WU

PS. Non mi pare sia stato ancora dato un prezzo di uscita, ma onestamente non mi aspetto sia esattamente roba a buon mercato…

PPSS. Mi ricorda quest’altro progetto qui (che pure mi vedeva un po’ perplesso…).

Dipingiamo gli alberi

Deforestazione, bla bla bla. Rispetto per l’ambiente, bla bla bla. sostenibilità dell’urbanizzazione, bla bla bla.

Mi sembrano sempre più (queste come effettivamente tante altre) parole vuote, concetti ben noti triti e ritriti che vengono sbandierati di bocca in bocca senza però vedere azioni effettive e concrete che seppur piccole possano giustificare il sol fatto che ci riempiamo la bocca di questi concetti. Per questo motivo, soprattutto, questa iniziativa mi piace. Semplice (beh, forse neanche troppo) e geniale.

A Varsavia (e certamente non solo) l’inquinamento è un problema. La trafficata stazione della metropolitana Politechnika è un via vai incessante di auto e mezzi in generale. Spazio per piantare alberi non ce n’è, ovviamente. E Varsavia è solo l’ultima arrivata in ordine di tempo, per ora, almeno a mettere a fuoco il problema come concreto e non come strumento da campagna elettorale.

Mura da dipingere in abbondanza. E non è detto che la cosa non possa essere una soluzione semplice, magari minima, ma concreta al problema dell’inquinamento cittadino. Un bel murales dipinto con vernice idonea, è un ottimo strumento per catturare gli inquinanti e contribuire a rendere più vivibile i pressi della stazione.

La vernice che svolge questo compito è la KNOxOUT che reagisce con il NOx generato da automobili e mezzi urbani, da fabbriche, centrali elettriche e via dicendo. La vernice fotocatalitica, sfruttando la luce del sole (che, lasciatemelo dire, a Varsavia non è proprio cosa abbondante…) come catalizzatore converte gli inquinanti in acqua, un po’ di CO2 (inquinante si, ma prodotta in quantità molto minori del NOx che viene assorbito) e nitrato di calcio. Quest’ultimo, assolutamente innocuo, rimane sulla superficie del murales fino alla prima pioggia per poi esser lavato via e lasciare il murales “pulito” e pronto per assorbire nuovi inquinanti.

Murales di questo genere esistono già a Bankok, Belgrado (ed appunto Varsavia), ma soprattutto la lista dei luoghi che intendono adottarli a breve è lunga: Lima, Sydney, Jakarta, Manila, San Paolo, Santiago, Johannesburg, Melbourne, Bogotà e Panama City. Non possono non notare l’assenza delle grandi città Europee, e certamente di quelle Italiane.

I murales fanno parte di questo interessantissimo progetto (sponsorizzato dalla Converse, che bella forma di pubblicità!) che sostanzialmente vorrebbe impiantare alberi urbani anche dove questi non possono evidentemente crescere per ovvie ragioni di spazio (si sa com’è… l’ingombro di queste piante non ne giustifica il loro ruolo “salva vite”…).

Forse non è la soluzione, ma certamente un degno palliativo. Se non altro un bel disegno mi disturba molto meno di tante parole a vuoto.

WU

PS. Ad oggi la superficie totale dei murales dipinti con questa superficie equivale alla bellezza di 5559 alberi che, a parte il numero assoluto, è come se fossero stati piantati proprio “dove servono” ovvero in punti particolarmente inquinati delle nostre (e non degli alberi) città.

No meaning

E’ da ieri che ho questa vignetta aperta sul mio schermo. Me la guardo e sorrido. E non perché annovero la gola fra i miei peccati capitali (anche se non disdegno affatto ne il buon cibo ne il cibo in generale), ma per il messaggio profondo che -credo- nasconda sotto l’evidente velo di banalità.

Il senso delle piccole cose. La gioia in una zuppa che qualcuno ha preparato per te e che ti serve, ogni sera. Molto più vicino, semplice, anche bello direi rispetto a qualunque risposta la filosofia o le stelle potranno mai darci.

Bene, ed il rischio allora qual è? Abituarcisi, non vederle più queste gioie (certo, a meno che non sia il nostro cuore-stomaco a ricordarcele) e darle per scontato. Diventano pezzi di routine che nascondono in se un significato ed una gioia neanche troppo profonda, ma che tendiamo (ed io mi schiero come capofila) a non cogliere più. Ok, ok, non cogliere sempre per non fare troppo il deprimente.

Se il cielo, il vecchio saggio della montagna, il super-mega-direttore (??) ce lo dicessero avrebbe un altro significato, se siamo noi a cogliere un sorriso interiore in un piatto caldo (o equivalente) regolarmente fornitoci finiremmo per convincerci che ci stiamo accontentando. Potrebbe essere un buon motivo per non considerarci gli essere più intelligenti del pianeta (ed infatti Snoopy è un brachetto).

WU

Eigengrau

Provate a chiudere gli occhi per qualche secondo; a parte l’incondizionata sensazione di pace e di estraneazione dalla realtà che questo gesto inconsciamente ci regala, che colore vedete?

Nero, avrei risposto io. Errando, ovviamente.

Tecnicamente vediamo, pare, un misto fra nero e puntini bianchi minuscoli che sono una sorta di rumore di fondo nel nostro sistema visivo, del quale ovviamente non ci rendiamo contro ad occhi aperti sia per la quantità di luce che lo sovrasta sia per il filtro a posteriori applicato dal nostro cervello.

La risposta giusta sarebbe Eigengrau, una sorta di “grigio proprio”, di “grigio cervello”. Termine creato verso la metà del XIX secolo dallo psicologo tedesco Gustav Theodor Fechner (il termine stesso ne tradiva la patria di origine, no?), ma che si è iniziato a vedere solo in questo secolo in pubblicazioni scientifiche ufficiali.

La gradazione fine di questo colore dipende da ciascuno di noi, ma sostanzialmente parliamo di un rumore della retina che genere eventi casuali indistinguibili da fotoni reali (che ad occhi chiusi però non ci sono e che quindi non si mescolano con il nostro rumore di fondo (che pare a sua volta esser molto dipendente dalla temperatura). L’Eigengrau che percepiamo è molto probabilmente attribuibile a quello che prender il nome di “emissioni ultradeboli di fotoni” che sono dei debolissimi fotoni emessi proprio dalle nostre cellule fotorecettrici.

L’Eigengrau è meno intenso del nero (colore che per assurdo non possiamo vedere quando non c’è luce perché non abbiamo alcun riferimento). Il colore pare tende a schiarirsi leggermente con il tempo (dopo circa 20 min di completa oscurità, se volete provare…).

Avete presente quando le vecchie TV analogiche non prendevano alcun canale? Un po’ più scuro e direttamente sulla vostra retina. Lo battezzerei il colore della solitudine umana.

WU

PS. Per la cronaca, in esadecimale il nero è #000000, mentre l’Eigengrau è completamente diverso #16161d

Questione di prospettive

Diciamo spesso, e temo non sempre cogliendone il vero significato, che in base ai punti di vista una stessa situazione può apparire completamente diversa. Se poi consideriamo che ci sono infiniti punti di vista e infinite situazioni è chiaro che non possiamo sperare di trovare facilmente un accordo con qualcuno.

A parte lo scetticismo che questa considerazione mi impone nei rapporti interpersonali, mi sono imbattuto nell’immagine sotto in cui in maniera nerd-ironica si reinterpreta il concetto di bicchiere mezzovuoto-mezzopieno.

Non credo la collezione sia esaustiva (mi immagino almeno un bicchiere tutto pieno con la scritta “è poco”: l’ingordo; oppure un bicchiere-senza-bicchiere d’acqua: l’illusionista; e via dicendo), ma è chiaro che ci da un’ottima carrellata del concetto secondo cui quello che vedi tu non è quello che vedo io anche se entrambi pretendiamo che la realtà sia oggettiva.

Ma la cosa che forse mi affascina ancor di più è che in tutti i casi chi guarda non ha alcun controllo sull’effettivo contenuto del bicchiere, se non la possibilità di interpretare (liberamente ?) quello che vede; come dire che il bicchiere resta impassibile ai commenti, ci fa solo parlare un po perchè siamo noi stessi ad averne bisogno.

Ed a tal proposito mi è tornata in mente la citazione sotto (una nota su un foglio che avevo preso, nessun riferimento ahimè … ma Google sopperisce in 0.90 secondi…):

Incredible change happens in your life when you decide to take control of what you do have power over instead of craving control over what you don’t

WU

PS. L’ottimismo, si sa, fa bene al cuore; ma sono certo che anche tutti gli altri punti di vista hanno i loro benefici. Anzi, un mix fra i vari punti di vista deve per forza giovare più di una singola rigida visione, per quanto ottimista, dell’indifferente bicchiere.

Fare fiasco

Assumiamo che voi siate dei soffiatori di vetro (come se fosse qualcosa alla portata di tutti…). Assumiamo che il vostro scopo sia quello di fare un bel varo articolato, complesso, barocco a tratti. Assumiamo che il risultato reale del vostro lavoro sia una sorta di bottiglia.

Ecco, avete “fatto fiasco”.

Nell’accezione di fallire, fare una cosa in luogo di un’altra. Oggi l’espressione la sentiamo usare soprattutto legata a qualche show televisivo, programma, radio/tv, serie televisiva, collana di libro

L’etimo potrebbe essere esattamente quello sopra. Tale origine, tuttavia, (che non essendo uno storico della lingua italiana mi pare comunque un po’ forzata…) potrebbe essere solo una delle possibili storie alla radice del modo di dire.

Un’altra possibile spiegazione del “fare fiasco” potrebbe trovarsi nello spettacolo teatrale di Biancolelli del seicento durante il quale interpretando Arlecchino, con un fisco in mano, improvvisa un improbabile monologo su quell’oggetto. Va detto che era prassi per gli attori comici del seicento improvvisare monologhi su oggetti casuali di scena), senza seguire un copione preciso per colpire un po’ l’immaginazione del pubblico; monologo che in questo caso non si rivelò particolarmente apprezzato da pubblico (… onestamente altra spiegazione che mi vien da dire la storia ha trovato più come giustificazione a posteriori della locuzione che come vera origine…).

Insomma la cosa che mi è chiara è che lo usiamo in abbondanza, ma non sappiamo con certezza da dove derivi. Potremmo anche ammettere che l’espressione sia solo un “caso storico”, una locuzione che racchiude una immagine condivisa da secoli, un modo di dire diffuso le cui radici (se ci sono) si perdono nella notte dei tempi: non mi meraviglierei se fiasco=fallimento non sia stato ne un soffiatore di vetro ne Arlecchino a sancirlo, ma solo ad usarlo, a dargli voce. Beh, certo, seguendo questa linea di ragionamento ci potremmo trovare a dire “fare pavimento” o “fare tenda” per dire fallire; forse in qualche diramazione del nostro multiverso è così… noi viviamo quello del “fare fiasco”… e “fare scopa”.

Se quello che avete da dire vi preme troppo, se il vostro cuore palpita con troppo slancio a suo riguardo, allora potete esser certa di un fiasco completo.
[Thomas Mann]

WU

PS. In questa para-analisi filologica mi sorprende che il detto esista anche in francese, in inglese e in tedesco.

PPSS. Altro detto interessante anche se meno comune e (forse) di più immediata interpretazione è “levare il vino dai fiaschi“: appurare qualcosa o chiarire una situazione… come si può valutare realmente la bontà di un vino solo dopo averlo appunto tolto dal fiasco e versato nei bicchieri.

Pianificare e svolgere, fra bugie e cuscini

Ora, diciamo la verità, in questo caso mi schiero in un limbo intermedi fra Dilbert ed il boss.

“Mentire” non è forse la parola adatta, ma credo che a tutti i livelli di una gerarchia aziendale si può concordare che servono alcuni margini (temporali certo, ma la buona vecchia equazione tempo=denaro -si, certo, ci sono anche i rischi e la qualità del prodotto…-) nella pianificazione di una attività, specialmente vicino la scadenza. Le date previste per il cliente esterno non possono coincidere con quelle del “cliente interno” e se questo non passa “con le buone” deve passare attraverso date previste che includono già di per se un certo margine, senza per forza comunicarlo ai diretti interessati. Tanto poi lo sappiamo un po’ tutti (mi viene da dire “come siamo italiani…”) che dato un tempo a disposizione arbitrario per svolgere un compito si utilizzerà quello più un delta piccolo a piacere -ma spesso grandissimo…-. Anzi, chiedete voi la stima del tempo necessario ad “un operativo” per fare qualcosa e ditemi se già non ci mette un certo margine dentro la risposta.

Dall’altra parte del ring abbiamo chi deve effettivamente svolgere un dato compito. Queste persone (ed io stesso quando rivesto questo ruolo) vogliono fare un buon lavoro, non dico siano perfezionisti, ma per mia esperienza è gente a cui piace il proprio lavoro e chiedergli di “arronzare” solo per rispettare una scadenza è come dire alla Bugatti di saltare le rifiniture dei sedili per far contento l’emiro che ha preso il volo per ritirare la sua auto… Diciamo che quando mi trovo da questo lato della situazione tendo a pensare che ho una scadenza fissa almeno per la prima consegna di un dato lavoro, avrò eventualmente tempo a sufficienza per tornarci sopra più e più volte senza fretta, se dovesse servire. Ovviamente dopo la prima volta che ho scoperto che ho fatto nottata per nulla tendo a guardare con più scetticismo (per usare un eufemismo) alle deadline inderogabili comunicatemi.

C’è poi “il dolo” quando le date imposte internamente sono eccessivamente stringenti, palesemente irrealizzabili o con cuscini temporali eccessivamente comodi tali da costringere le risorse (termine che mi fa venire l’urticaria usato così) a lavorare anche fuori l’orario di lavoro o durante il fine settimana. Il dolo del dolo sono poi tempi persi-morti che intercorrono nei vari stadi della catena di comando fra la consegna del lavoro che è costato letteralmente sudore (dai, sangue diciamo di no…) ai collaboratori per convocare semi-inutili riunioni su riunioni di allineamento-approvazione…

In ambo i casi non trovo giusto ricorrere a frasi generiche-deliranti-sminuenti sia in un verso che nell’altro circa le capacità nello svolgere una attività o nel pianificarla, circa la propensione a fare gioco di squadra e circa la dedizione al proprio lavoro. Nella situazione in cui lo scopo comune di un team non sia quello di “consegnare un buon lavoro, nel rispetto dei tempi e dei costi” (più facile a dirsi che a farsi) i problemi sono ben più profondi di una “menzogna” o di una “pianificazione con cuscino”.

Non credo esista una cura univoca a questo problema, ammesso che di problema si tratti (condividere questi margini può aiutare? Forse si, ma mi chiedo se non si debbano poi prendere margini sui margini condivisi… cuscini su cuscini…). Avere sotto controllo la pianificazione temporale di un progetto/programma è forse la cosa più difficile da fare… e da essa ne deriva anche il controllo dei costi (non tutti sono abnegati alla Dilbret… spesso gli straordinari si pagano…) e dei rischi (una penale per consegna in ritardo non è sempre uno spauracchio del cliente, a volte è un vero e proprio strumento per recuperare impatti, anche indiretti, a cascata…).

Non è un lavoro che si insegna e direi che non è neanche un talento. Ci vuole pazienza (quella sempre), esperienza (non basta mai) ed una bella dosa di culo (… attutito da ragionevoli cuscini nella pianificazione). Una sorta di pericoloso gioco di ruolo

WU

PS. Ovviamente se poi si chiede uno sforzo extra-lavorativo alle persone per rispettare tempistiche irragionevoli e per di più su attività non critiche non c’è nulla da insegnare o sperare che venga appreso, ma solo da cambiare lavoro. In ambo i casi.

PPSS. Sono sotto scadenza; vera in quanto auto-gestita. Si vede?

E’ una Apple-Banana, no?

Questa vignetta mi ha intrippato per un po’. A parte per l’evidente humor di “aver a che fare con gli stupidi”, intendo.

Ne evinco la conferma del messaggio: si può dimostrare tutto ed il contrario di tutto, più o meno con la stessa semplicità. Se il tuo scopo è dimostrare che è una banana, beh… basta google. Se il tuo scopo è dimostrare che non lo è, invece, quale “evidenza” migliore di un classico “so che ti stai sbagliando perché non ammetti mai di sbagliare”?!. Come se fosse compito di Dilbert dimostrare di aver ragione, mentre il boss può facilmente asserire che ha torto.

C’è un processo di “verifica esterna” sotteso in queste discussioni in cui ci si aspetta che chi sostiene una tesi (quello che deve dimostrare di aver ragione) avesse bisogno di una conferma da parte di terzi (imparziali? google con tutti i dubbi del caso sulle fonti?) altrimenti le sue posizioni non possono essere veritiere; stranamente lo stesso non vale per i negazionisti” (termine particolarmente in voga in questo periodo…).

Ma mi sono intrattenuto anche con una ulteriore lettura: ci sono milioni di modi per far perdere le staffe a qualcuno. A volte lo si fa “per dolo”, altre volte involontariamente, ma mettersi in opposizione con qualcuno è veramente semplice e spesso le portare del nostro comportamento sul suo umore, sulla sua psiche, sulle sue convinzioni è ben maggiore di quello che ci aspettiamo (o che vorremmo ottenere).

Fatemi fare ora un passo di para-filosofia: ma se una banana la chiamiamo banana è solo per convenzione, no? Allora basta condividere una nuova convenzione per salvare capra e cavoli (o mele e banane che dir si voglia). Potrebbe essere una visione di diversa nomenclatura per un oggetto di condivisa natura? Oppure possiamo interpretarlo come “pregiudizio” di una delle due fazioni? Un lascito culturale/sociale? Razzismo? Beh, si, sto esagerando.

Mi vengono in mente le discussioni fra bambini: “è mio perché è mio” oppure “questo è un microfono (magari tenendo in mano un bicchiere) perché ora mi serve un microfono”. Che la fantasia non sia ora un limite per la comunicazione sociale (e forse Dilbert pecca di fantasia…)? Ma ora fra fantasia e comunicazione la scelta si fa ardua…

WU

La Suspense

Potremmo definirlo come una sorta di stato di attesa (di “sospensione” appunto) quando non sappiamo di preciso come le cose possano andare a finire. Tipicamente associamo il termine ad una situazione non propriamente piacevole, un po’ macabra, scabrosa. E’ uno strumento narrativo classico di gialli, horror, thriller, polizieschi e via dicendo. Il rilassamento della Suspense è in genere il momento della (razionale) rivelazione che chiarisce tutto ed “abbassa la tensione”.

L’origine del termine è francese: en suspens. Anche se Suspense è di per se un termine inglese e qui lo scoop: in qualunque lingua (anche in francese) vogliate scriverlo si scrive cosi: Suspense. No suspance. No suspence. Questi sono errori, non mascherabili da “l’ho scritto alla francese/polocca/carlona”.

Suspense è in italiano un sostantivo femminile, seguendo la prassi (non credo sia una regola) che gli anglicismi prendono il genere del termine italiano corrispondente, in questo caso sospensione. Suspense in inglese è… maschile (la suspense inglese è un’altra cosa: una censura ecclesiastica, una sospensione che colpisce un sacerdote).

Notevole a tal proposito questa citazione di Hitchcock (che credo converremo può esser definito un maestro della Suspense… l’errore nel termine incriminato è proprio parte della citazione):

La differenza tra suspense e sorpresa è molto semplice e ne parlo spesso (…) Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena del tutto normale, priva d’interesse. Ora veniamo alla suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto – c’è un orologio nella stanza – : la stessa conversazione insignificante diventa tutt’a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena. Gli verrebbe da dire ai personaggi sullo schermo: ‘Non dovreste parlare di cose banali, c’è una bomba sotto il tavolo che sta per esplodere da un momento all’altro’. Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici secondi di sorpresa al momento dell’esplosione. Nel secondo gli offriamo quindici minuti di suspense

D’altra parte anche Google lo sa:

  • suspence: 1.600.000 risultati
  • suspance: 311.000 risultati
  • suspense: 108.000.000 risultati

WU

PS. possiamo dire in “tema di Halloween”?