Mascherine e mascherati

Nell’epoca delle “face masks” l’interpretazione può essere quella di “lesa libertà” (da cui i disordini sociali di questi giorni su cui vorrei evitare di sbilanciarmi, ma mi sono un po’ intrippato su un interrogativo: ma quando hanno reso obbligatorie le cinture di sicurezza abbiamo fatto tutto questo casino, vedendo addirittura un tentativo liberticida? Solo che, a differenza delle cinture in auto, non ci sono multe che tengano, qui è una questione di rispetto sociale, ma si sa quando ci si appella “al buon senso” o al “raziocinio” delle persone si è destinati a perdere. Ecco, mi ci sono un po’ dilungato) oppure una acuta ironia stile questo XKCD (che è già “d’annata”).

E’ chiaro che Zorro, Lone Ranger (un “supereroe” non della mia epoca, l’ho sempre visto come un triste replicato di Chuck Norris o John Wayne) e Batman dovrebbero rivedere la loro livrea: il loro naso (beh, Batman in parte effettivamente…) e la loro bocca sono scoperti. Le attuali regole anti-Covid li vorrebbero ridisegnati con una classica (già, ormai sono classiche…) “mascherina chirurgica” sovrapposta alla loro “fascia oculare” (ma veramente se mi metto una fascia solo sulla parte degli occhi non mi riconoscono?).

Vanno leggermente meglio lo spaventapasseri, le maschere da viso (ma di che sono fatte? alghe?) e quella di V per Vendetta, anche se qualche rischio contagio ci sarebbe comunque; forse evitando assembramenti sarebbero anche tollerate.

Molto meglio, decisamente meglio delle nostre mascherine chirurgiche o FFP2/3, con mascherine più che coprenti abbiamo invece Darth Vater (che è più che ben protetto dal Covid-19 si aper quel che potrebbe entrare che quello che potrebbe uscire, d’altra parte ha già i suoi problemi…) e Mysterio (per chi non lo conoscesse è una sorta di cattivo di secondo piano di Spider-Man, non mi risulta abbia poter speciali ma è bravo con giochi di prestigio e pirotecnici). Spider-man è più o meno uno di noi, il che lo riconferma un supereroe di quartiere.

Mi fa piacere notare che almeno nella lotta al Covid-19 i cattivoni dei fumetti siano meglio attrezzati dei buoni supereroi che evidentemente non si aspettavano una pandemia, forse a differenza dei loro anti-eroi.

WU

PS. Immancabile l’alt-text:

Haunted Halloween masks from a mysterious costume shop that turn you evil and grow into your skin score a surprisingly high 80% filtration efficiency in R. L. Stine-sponsored NIOSH tests.

Per info R. L. Stine è l’autore della serie per ragazzi “Piccoli brividi” (che non ho mai seguito, ma a pelle non mi attira per nulla).

Couvre-feu

Se dovessi scegliere una parola, una sola, che simboleggi questi giorni forse sceglierei il termine “coprifuoco” (al secondo posto metterei “tensione sociale”, ma per il momento lasciamo stare). La domanda (mi) sorge spontanea, ma quindi… perché si dice coprifuoco?

Correva il XIII secolo, pieno medioevo. L’unico, ovvio, sistema per riscaldarsi era il fuoco, ma lasciare fuochi incontrollati durante la notte in abitazioni fatte per lo più di legno non era un’idea proprio saggia. E molti furono evidentemente i roghi divampati finché in Francia non venne introdotto il couvre-feu.

Al calar della sera, dopo il rintocco di alcune campane tutti i cittadini erano obbligati (attenzione, qui sta il punto, non era un invito, ma un obbligo) a spegnerei i loro fuochi domestici. Sotto la cenere per non fare troppo fumo. Mi immagino ci fossero delle ronde che verificassero che “tutto era spento” e che provvedessero “in altro modo” se trovavano focolai ancora accesi.

Il termine ha poi lasciato la sua accezione letteraria soprattutto con Guglielmo il Conquistatore che da Duca di Normandia venne incoronato re d’Inghilterra e fece ampio uso del cur-few (coprifuoco all’inglese) per sedare qualunque ribellione (in questo caso mi viene da dire che “l’interesse superiore” fosse il suo personale…).

Il coprifuoco poi ci fa compagnia durante le guerre mondiali. Per proteggere la popolazione durante le incursioni, tipicamente notturne, dei nemici e per limitare/impedire le azioni massoniche di “resistenza passiva” della popolazione nei confronti dei nazi-fascisti.

Il punto è che il coprifuoco è per sua natura (… è tutto in questo nome che io mi porto addosso…) una misura liberticida in nome di un bene comune (?) superiore. Il nemico da sconfiggere, sia esso un virus, una guerra o un incendio, richiede misure estreme ed un sacrificio da parte di tutti. E quale sacrificio più grande se non la nostra libertà (o quella che intendiamo come tale)?

WU

Che università farai? Te lo dice l’algoritmo

Una notizia di questi giorni che è passata sulle “maggiori testate nazionali”. E pare esser spacciata anche come una cosa seria. Non dico che non esistano criteri semi-oggettivi per la scelta di una facoltà (ancora mi chiedo che impieghi lavorativi aspirino ad avere gli studenti di “scienze per la pace”), ma è chiaro che vi è una elevatissima componente soggettiva (se sono un pacifista convinto tollererò anche un ripiego, no?) per cui un algoritmo matematico che mi dice che scelta universitaria fare mi fa sorridere.

Nel momento di farla è una scelta di per se difficile (e non lo dico solo per esperienza diretta, ma anche e soprattutto indiretta), ma difficilmente se ne colgono i risvolti a lungo termine. Eppure ci sono (o almeno c’erano finora, sul sicuro non ci giurerei…) e sono anche importanti.

L’ingresso ed il posizionamento nel mondo del lavoro è solo uno degli aspetti. CI sono ovviamente “formazioni post laurea” (e ditei se uno deve fare affidamento sulla formazione post laurea per trovare lavoro…) che possono indirizzare meglio o peggio, ma la scelta del percorso universitario determina sia diversi anni importanti della vita di ciascuno sia le scelte che da questo cammino poi deriveranno (per quanto potrebbero sembrare indirette).

In ogni caso l’idea dell’algoritmo è quello di ridurre a parametri oggettivi la scelta del percorso universitario per le giovani menti partendo dalle loro inclinazioni, ma tenendo in conto inclinazioni e passioni dei ragazzi. Onestamente mi pare decisamente ambizioso.

L’algoritmo, made in A2A, parte dal selezionare un “grande polo universitario”, insomma un ateneo con un po’ tutti i corsi di laurea. A questo punto il primo passo è quello di eliminare le facoltà che non si frequenterebbero mai (e già qui mi viene da dire che la priorità è data alle inclinazioni del singolo più che alle prospettive lavorative).

A questo punto l’algoritmo considera 7 parametri oggettivo/soggettivo: la percentuale di occupati dopo la laurea, la condizione occupazionale, il salario medio, la passione per il lavoro che si può fare post-laurea, la passione per le materie, etc. A ciascuno viene attribuito un punteggio da 1 a 10 ed un peso in percentuale in base all’importanza che hanno per il ragazzo.

Il risultato della media ponderata tra i punteggi e i pesi restituisce un valore rappresentativo dell’attrattività del corso specifico per il ragazzo: il corso con il valore più alto dovrebbe essere quello prescelto.

Ovviamente l’algoritmo è stato realizzato grazie a tutti i dati statistici messi a disposizione dai vari atenei, statistiche che sono in effetti pensate anche per aiutare i giovani virgulti nella loro scelta (beh, anche per indirizzarla in effetti…). Forse il reale vantaggio di questo algoritmo è proprio quello di incorciare tutti i dati in un singolo database e fornere SUGGERIMENTI (non aspettiamoci magie, diciamocelo e facciamolo capire ai dubbiosi studenti) sulla strada da intraprendere.

Incrociare le passioni con una scelta consapevole.

… non lo so, ma se fosse stato disponibile “ai miei tempi” almeno una domandina gliela avrei comunque fatta…

WU

PS. Se volete provare il verdetto (che siate ancora in tempo o meno) qui

A ufo

Domanda preliminare, ma lo sapevate che è (almeno secondo una delle interpretazioni) un acronimo?

A sbafo, a scrocco, senza pagare, a ufo insomma. Il termine lo abbiamo usato tutti (credo) e comunque non rientra ne fra quei termini che gridano aiuto per esser salvati dall’oblio della lingua moderna e neanche (secondo me) di quei termini particolarmente belli da sentire o che attirano la mia attenzione in una frase.

L’etimologia, tuttavia, mi ha colpito.

A ufo è (o potrebbe essere) l’acronimo di Usum Fabricae Operis (o anche Ad Usum Fabricae): destinato ad essere utilizzato nella fabbrica. E’ una espressione latina (ma va?) che identificava questi beni destinati ad essere usati in fabbrica ed esenti da qualsiasi dazio, quindi per i quali non veniva richiesto nessun tributo. … se ne potevano procurare, pertanto, in abbondanza. Pare (devo ricordarmi di provarlo a verificare), infatti, che sia i blocchi di marmo del Duomo di Milano sia il materiale utilizzato per Santa Maria del Fiore (Firenze) riportino la scritta A.U.F.

Anzi, pare che fu proprio per costruire il Duomo di Milano che l’espressione fu coniata. Quando, attorno al 1389, si decise che il Duomo sarebbe dovuto esser realizzato in marmo il Duca di Milano mise a disposizione le sue cave di marmo (cave di Candoglia). Oltre alla disponibilità della materia prima il Duca diede anche il diritto di trasportare la stessa senza pagare pedaggi, dazi e gabelle per tutto quanto sarebbe stato necessario all’edificazione. Il materiale veniva marchiato con A.U.F.

Una differente versione leggermente differente del termine lo fa risalire al latino “ex offitio”, diventata poi ex uffo. Tale dicitura era riportata sulle lettere inviate al governo dai Magistrati di Firenze, attono al quattrocento, per indicare (in ogni caso) quelle che erano prive di dazio. Come per i bani da fabbrica anche su questo genere di missive si poteva non lesinare. Se ne potevano inviare… ad ufo.

Oggi, mi pare di intuire, che ad ufo ha una connotazione alquanto negativa: prendere le cose in abbondanza anche quando non sono proprio necessarie. Prenderle senza contribuirne per una parte. Approfittare ingordamente scroccando.

Pazienza! – dissero i conigli. – Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. – E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.

[Pinocchio, Cap XVII]

WU

PS. Pare, per dovere di cronaca, che questi etimi siano stati comunque in qualche modo sconfessati dai linguisti (puristi!) che fanno risalire a ufo al germanico ufjô (“copioso”) o dall’alto-tedesco antico uf (“sopra”). Molto meno intrigante come racconto…

PPSS. No, non sono gli Unknown Flying Object.

Mascherine cancerogene. Ma dai…

Ma l’avete visto anche voi? Io, che non sono certo social, mi ci sono imbattuto almeno un paio di volte. Potrebbe, IMHO, vincere anche il primato di cazzata dell’anno (beh, sempre rimanendo in tema COVID-19 anche questa o questa finirebbero sul podio…).

Ma veramente, (e temo che la risposta sia si…) ci muoviamo in una società in cui “notizie” di questo genere trovano terreno fertile per la diffusione (vi ricordate questa “motivazione”)?

Ad ogni modo quello che sostiene il poster non solo è errato, ma è anche facilissimamente smascherabile con dieci minuti di cazzeggio in rete. Ed io NON sono un dottore. Il succo del poster (la cui grafica già mi disturba) è: la mascherina causa il tumore.

Perché? Beh, semplice, perché toglie ossigeno alle cellule, e come tutti sappiamo, o almeno come Otto Warburg ci illustrava nel 1931, riducendo il flusso di ossigeno alle cellule queste diventano tumorali. In pochi minuti (non metto link perché temo possano sembrare strumentali, fate un giro…) si scopre intanto Warburg NON ha vinto alcun nobel e le sue teorie sui tumori non sono state mai confermate, anzi, sconfessate pochi anni dopo. Parliamo del 1931, fatemelo ripetere.

Anche le “citazioni” riportate nel poster sono troncate, incomplete, strumentalizzate per sostenere una ipossia che dovrebbe tenerci tutti alla larga dalle mascherine. Quindi per liberare le terapie intensive dai malati COVID siamo pronti a riempire nel giro di pochi anni i reparti oncologici. Veramente? Che scelta geniale!

Ah, certo poi ci sono categorie che secondo questa teoria dovrebbero essere tutte malate di cancro: dai chirurghi ai disinfestatori, tutti coloro che usano una mascherina per gran parte della giornata lavorativa. A saperlo prima! Questo poster dovrebbe troneggiare in tutte le corsie ospedaliere. E nelle sQuole.

Because of how tiny oxygen and carbon dioxide molecules are, face masks neither decrease the amount of oxygen that enters a mask nor increase the amount of carbon dioxide that stays in a mask. As a result, face masks do not disrupt the body’s pH levels, affect the bloodstream, or alter one’s body in any way that would put someone at higher risk of cancer.

WU

PS. Qui un articolo ben fatto a riguardo

Una toilette da 23M$

… e non sto parlando di questa (ne, tanto meno, di questa fine).

Come tutti noi mortali terreni anche il sottoinsieme di noi che lambisce il firmamento ha bisogno di obbedire alle leggi corporali imposte da madre natura (ok, ok, l’ho presa un po’ troppo larga): anche gli astronauti devono andare in bagno.

Le lunghe permanenze sulla ISS prevedono diversi mesi in cui tutti i normali bisogno corporali vanno espletati, sia per gli uomini che per le donne, orma sempre più frequenti sulla ISS.

La cosa non è un problema da poco, in breve perché lassù c’è una gravità estremamente ridotta che non facilita l’evacuazione dei fluidi corporei (e bisogna ovviamente evitare accuratamente che se ne vadano in giro…). Tant’è che durante le prime missioni umane gli astronauti facevano pipì direttamente in delle sacche all’interno delle loro tutte spaziali e nel 1961 fu lanciato il primo WC spaziale che è poco più di una busta di plastica vagamente tubolare in cui espletare alla meno peggio e poi chiudere subito (mi immagino la comodità per una donna…).

Dopo il 1961, negli anni 90 fu progettata e lanciata la Waste Collection System -WCS- che ha egregiamente servito (mediante dei flussi di aria forzati) l’equipaggio della ISS fino ad oggi.

Ma da quasi trent’anni nessuna novità su questo fronte. Fino alla nuovissima Universal Waste Management System -UWMS- (e ricordo anche una “call for ideas” della NASA di qualche anno fa che chiedeva proprio idee innovative per cessi spaziali, con particolare attenzione alle necessità delle signore). Il lancio è previsto per domani.

Mentre la WCS consentiva all’equipaggio o di urinare o defecare, ma non nello stesso tempo, la nuovissima UWMS consente anche “la combo”. Anche il sedile è stato ri-sagomato per renderlo più confortevole per terga femminili e per le necessità legate al periodo del ciclo. Il comfort è stato messo in primo piano (non vi sono più cinture per “legarsi al bagno”, ma solo appoggi per mani e piedi), ma anche la semplicità di pulizia è stata aumentata (ve lo immaginate un bagno otturato sulla ISS?). Ah, la UWMS è anche il 65% più leggera e 40% più piccola del suo predecessore.

La toilette è comunque solo l’interfaccia con il problema dello smaltimento dei rifiuti organici nello spazio. La materia fecale viene sigillata in sacchi ermetici ed immagazzinata in contenitori in attesa di esser riportata a terra (o bruciati nell’atmosfera), mentre i rifiuti liquidi vengono filtrati, trattati e purificati (sempre dalla UWMS) e poi riutilizzati a bordo della ISS.

Costo: 23 milioni. Ma si sa, su alcune cose non si può proprio lesinare.

WU

Il bacio, ed il reddito

E’ che già il titolo mi spinge a leggere questo genere di studio. E’ come chiedersi se le mele cotogne hanno una relazione con gli stati quantici che può interferire con la conservazione delle opere d’arte (chissà, magari è pure vero…).

Ad ogni modo c’è qualcuno che ha veramente fatto una correlazione fra reddito e baci correlando lo stato economico di una serie di soggetti con la frequenza con cui questi affrancano le labbra su quelle del partner.

Da una parte volevamo capire se il bacio potesse essere utile come strumento sensoriale nella valutazione del partner dal punto di vista di salute, dall’altra quanto il bacio riflettesse la disponibilità a investire in una relazione

Onestamente a pensarci bene è anche meno assurdo di quello che possa sembrare ad una prima occhiata, ma di certo mi pare una correlazione un po’ forzata: non capisco bene perchè il bacio sia l’indicatore che mi dice se sto investendo o meno in una relazione (posso accettare che magari può essere uno degli indicatori) e perchè lo stato economico deve incidere sulla volontà (non sulla effettiva attuazione) di investire?

Comunque, quello che è risultato dallo “studio” è che il bacio è “più frequente” nei paesi più poveri e nelle persone più adulte (rispetto a giovani coppie). Le motivazioni addotte dai ricercatori per motivare questo risultato è che nei paesi più poveri vi è maggior tempo da dedicare alle relazioni interpersonali sulle quali si fa anche maggior affidamento. Nei paesi più economicamente benestanti, di contro, il tempo sarebbe più “investito” in lavoro, hobby ed attività “extra familiari” e quindi il bacio sarebbe un gesto “trascurato”.

Non è assurda la conclusione, lo sono (IMHO) un po’ le basi su cui questa viene costruita e lo prendo come il pretesto per ricordarmi (io che vivo evidentemente in un paese benestante, no?!) di dare un bacio una volta di più, soprattutto per “coppie di vecchia data”.

Lo studio ha avuto ad ogni modo il riconoscimento che meritava; Ignobel 2020 per l’economia. Ed i suoi autori l’hanno presa anche sportivamente (chapeau anche per questo):

questo premio è un po’ il riconoscimento alla creatività e se vogliamo alla serendipidità che possono essere un punto di forza e uno stimolo per dire che tutto può essere ricercato

WU

Cwtch

Non ha neanche una vocale, non poteva non attrarre la mia attenzione. Si tratta di una parola gallese (il cui etimo è parente al termine gallese per divano) e, soprattutto, non si tratta di un acronimo.

“Cwtch” è una parola pressoché intraducibile in ogni altra lingua (come tipicamente accade per termini altamente specifici coniati in una data lingua che per rendere l’idea del significato in un’altra richiedono spiegazioni estese o parafrasi) e significa sostanzialmente “un abbraccio sicuro”. Un posto/momento/gesto che ci fa sentire protetti, quello che ci da (o dovrebbe dare) la persona che si ama; un abbraccio che ci fa sentire “piccoli”. Si va dalla compagna/moglie/amante alla mamma/papà, dalla sorella/fratello all’amico/a del cuore, dal cane/gatto/furetto a chi (non cosa, dai…) vi pare.

Il Cwitch è quello che ci fa sentire sicuri ed in pace, senza nulla che ci turbi, nulla che possa ferirci o turbarci; il posto unico che si trova fra braccia sicure. Un abbraccio che avvolge e ci fa sentire a casa. Molto più di un semplice abbraccio (già merce rara, anche in epoca pre-COVID), un momento speciale che rassicura chi lo riceve e chi lo fa. Un legame che si suggella, un significato di “casa”. Un termine profondo (e che personalmente mi riconduce anche ad un aspetto un po’ più romantico della quotidianità che forse tendo spesso a sottovalutare).

Mi fa sorridere come una parola così dura e praticamente impronunciabile (se fate un giro in rete sentirete qualche gallese che ci prova… non ne conosco la dizione corretta, ma quelle che ho sentito mi paiono quantomeno tutte diverse…) esprima un concetto così caldo ed “avvolgente” (è proprio il caso di dirlo).

Ah, il Cwitch poi finisce (assumendo, almeno come augurio che possiamo tutti noi provarlo, almeo una volta nella vita) e “la dura realtà” è li fuori che ci aspetta.

WU

PS. Cwtch significa, molto meno romanticamente, anche “a cupboard or small space for storing things; A cwtch is a place to keep things safe”. Sarei in difficoltà su cosa dare a qualcuno che mi chiedesse un Cwtch…

University COVID Model

A parte l’evidente leggerezza (e meno male!) di questo Randall dovuto al multiple-both (e se poi vogliamo esagerare anche confermata dall’alt+text della striscia “I admit this is an exaggeration, since I can think of at least three parties I attended while doing my degree , and I’m probably forgetting several more“) il punto è quanto mai calzante.

Dei vari modelli Covid-19 ne abbiamo già blaterato, ma prima o poi sono certo che uno più o meno calzante, soprattutto in retrospettiva, lo troviamo (ammesso poi di riuscirlo ad interpretare…). Le ipotesi su cui tali modelli sono costruiti sono certamente più o meno ragionevoli, ma i “fattori nascosti” pullulano.

Un modello, in quanto tale, prende una parte della realtà, quella considerata la più “importante” per l’evento che si vuole analizzare e ne fa una specie di schema cercando di coglierne gli aspetti più salienti per arrivare ad un risultato (numero da mettere in bocca a qualche politico) che dovrebbe essere una specie di pronostico del futuro. Di modelli ne esistono a iosa e molti funzionano da millenni.

Per un evento tipo pandemia, tuttavia, il problema serio di tutti i modelli è che le ipotesi alla base, i tratti della realtà che vengono considerati come fondamentali per pronosticare l’evoluzione del contagio sono spesso incomplete. Esistono eventi/fattori nascosti che determinano in modo rilevante l’evoluzione del contagio e che non sono parte di nessun modello. D’altra parte voi prendereste sul serio un modello di evoluzione della pandemia che considera due (?) tre (?) mille (?) festini universitari non-autorizzati?

Ah certo, poi ci sono gli assembramenti inaspettati, le file con il negazoinista che si toglie la mascherina per tossire oppure i momenti di punta in spiaggia che andrebbero inclusi nel modello (e mi aspetto che una volta che le ipotesi siano solide non sia difficile includere nei modelli questi “momenti di picco di contagio”).

In generale ho l’impressione che tendiamo un po’ a dimenticare (oltre i “several parties” che tutti tendiamo a dimenticare dei nostri anni universitari, no!? 🙂 ) quello che abbiamo vissuto negli scorsi mesi ed un generale senso di “rilassatezza” stia invadendo la nostra quotidianità. Forse ci serve per convivere con l’ospite, forse siamo stanchi e non ne possiamo più, forse quello che volete, ma sempre più spesso alla “gomitata di rito” fa seguito una macha stretta di mano oppure all’ingresso con mascherina segue velocemente “me la tolgo, ok?” (e che ti devo dire?!).

Abbiamo fatto tanto, io sarei per stringere i denti ancora un po’ (cosa che mi viene tutt’altro che naturale)… se non altro per tornarli a fare davvero i parties più che ricordarcene se ci servono come ipotesi di un qualche modello…

WU

Più Raven (matrici) per tutti!

Che la mente umana sia una sorta di giardino delle meraviglie non devo esser certo io a dirlo (e così l’ho detto 🙂 ). Che poi noi stessi, per mezzo di lei, ne riusciamo a scandagliare le profondità è il sancta-sanctorum del giardino. Il fattore “g”, in particolare, è quell’aspetto dell’intelligenza umana che identifica i processi cognitivi più generali, ovvero quelli che ci permettono di affrontare bene-male-benemale i problemi quotidiani.

Il fattore “g” è legato al ragionamento analogico, alla capacità di astrazione, alla percezione, insomma a quegli aspetti più “primordiali” dell’intelligenza (non quella acquisita o quella determinata dall’ambiente, educazione, istruzione, età, etc. per intenderci). Mi sono intrippato in questi giorni (credo sia un lascito di quei Sudoku mai fatti sulla spiaggia) con le matrici di Raven che “misurano” in qualche modo proprio questo fattore “g”.

Le matrici di Raven sono state create da J. C. Raven -ma va?- nel 1938 con lo scopo proprio di misurare il fattore “g” dell’intelligenza e l’applicazione era per valutare gli ufficiali dell’esercito americano. Il passo alla “gente comune” fu velocissimo data l’immediatezza di questo tipo di test ed i buoni “indizi” che da sulla nostra intelligenza. Le matrici, inoltre, sono un test senza età (ovvero, declinate in maniera opportuna calzano benissimo sia per adulti che per bambini) sono indipendenti dalla cultura/nazionalità del soggetto; sono economiche -che non guasta mai-, sono rapide e misurano la cosiddetta “intelligenza fluida” (definita come “abilità di pensare chiaramente e di dare un senso alla complessità”), ovvero l’intelligenza non verbale, ma anche il ragionamento astratto, ovvero l’abilità di interpretare, produrre ed elaborare informazioni (cosa che, per quel che ci capisco, mi pare imprescindibile anche da una certa motivazione a fare il test, impegno, coinvolgimento, etc.).

Oggi le matrici di Raven si trovano dalla settimana enigmistica ai colloqui di lavoro. Ma, ricordiamoci, come diceva già lo stesso Raven che da sole non bastano per valutare l’intelligenza di una persona e devono essere affiancate ad altre fonti di informazione prima di “interpretarne” i risultati.

Stiamo praticamente parlando di una serie di schede (nei test “seri” circa una sessantina ovviamente di difficoltà crescente e da completare in un tempo limitato) in cui vi sono alcune figure e si chiede al candidato di completarle con quella mancante. Per farlo bisogna capire la logica che c’è dietro le immagini.

Spesso ci prendo, altrettanto spesso credo (beh, probabilmente solo secondo me) che la risposta possa non essere univoca ed ancora più spesso tendo a modificare (o mi limito ad immaginare le possibili modifiche apportabili) le figure date per far tornare la sequenza con quella che mi verrebbe da mettere. Raven non approverebbe ed in retrospettiva neanche io.

WU

PS. So che sono una cosa ben più seria di un giochetto, ma io le interpreto come tale (e non faccio HR…) e rimango scettico riguardo numeri secchi (vogliamo parlare del QI?!) che pretendono di valutare una cosa così variegata, diversificata ed incongruente come la nostra mente.