Lo strumento che fa Ping

Fuor di metafora, ditemi se non è il modo migliore per identificare “un looser” (per come l’intendo io qualcuno che non ha mail la colpa di nulla, che è vittima del sistema, delle circostanze, di un qualche complotto… qualcuno che non sa rallegrarsi per qualcuno, qualcuno che non è riuscito in questo o quello non per colpa sua, qualcuno che non ha avuto tempo, modo o strumenti per portare a termine il suo compito… qualcuno che deve dare la colpa o parlar male di qualcun altro per sentirsi capito, sollevato, per sentirsi “un vincente”) è vedere quanto tempo si diverte con un meccanismo “guarda anche…”.

Date uno strumento (poco più che un giochino… i dati del foglio orario, qualche statistica sugli obiettivi aziendali, retribuzioni, etc.) a qualcuno, meglio se tratta di dati di colleghi/collaboratori/dipendenti e state un po’ a vederne l’utilizzo.

I “looser” spenderanno parecchio tempo in analisi sommarie ed inutili per additare questo o quello di qualcosa; magari per giustificare con colpe di terzi “fallimenti” (spesso auto-valutati tali) personali. Saranno i primi a “puntare il dito” (o puntare lo strumento di Dogbert… il cui vero sistema di funzionamento potrebbe essere “identifica come looser colui che lo punta a chiunque altro nella stanza”).

Diciamo che più che inventare uno strumento, per identificare “un looser” è sufficiente fare un po’ di attenzione al metodo, all’utilizzo, che molti di noi fanno di strumenti già ben noti.

E poi c’è, per me insito nel concetto stesso di “looser” una certa variabilità in base alle situazioni. A parte casi estremi non credo esistano “looser” (e “winner”) universali; agiamo spesso un po’ tutti “scompostamente” magari sulla scia dell’impeto o della frustrazione. Certo è che un po’ di sana osservazione ed un po’ di “allenamento quotidiano” limita di parecchio tutte le situazioni in cui lo strumento suona ping (usato nel verso giusto…).

WU

PS. Per questa striscia ho riso per una decina di minuti… più che “looser detector” l’avrei intitolata “lo strumento che fa Ping”… tanto in base al periodo o alla situazione il detector non può non suonare…

Sbarcare il lunario

Intanto cosa è il lunario: un almanacco popolare con dentro un po’ tutto quello che poteva regolare il passare del tempo nei paesi di un tempo: giorni, mesi, fasi lunari (soprattutto queste da cui prende il nome!), previsioni meteo, santi, detti, feste, ricorrenze, sagre, proverbi, aneddoti, etc. Un almanacco (altra bella parola in effetti), insomma. Per estensione, lunario ha assunto facilmente il significato di anno. Termine che personalmente conosco solo all’interno di questa locuzione…

E poi c’è sbarcare. Altro termine che conosciamo tutti con accezione ben diversa, ma del quale troviamo (in realtà non mi pare ne conosciamo il motivo, lo troviamo e basta…) attestazioni ottocentesche con una accezione figurata del genere “vivere stentatamente“: “Prete Pero è un buon cristiano, Lieto, semplice alla mano, Vive e lascia vivere. Si rassegna, si tien corto, Colla rendita d’un orto, Sbarca il suo lunario“, “Mi conviene far conto anche di queste minuzie, per isbarcare mese per mese alla meglio il mio lunario“. Il termine in questa accezione si rifà ad un concetto generale di vita modesta, di tirare avanti con sento, si superare gli ostacoli man mano che si presentano (sbarcarla). Non so (ma personalmente mi pare un po’ forzato) se l’origine di questo significato del termine risieda nel “arrivare in porto sani e salvi, e quindi sbarcare” (ci metterei quindi questo pezzo qua).

Ed infine li mettiamo insieme. Sbarcare il lunario: tirare avanti alla giornata per tutto un anno, arrivare all’anno successivo al costo di rinunce e sacrifici, vivere decorosamente ma con sacrifico… molto più d’impatto un elegante “sbarcare il lunario” (espressione sufficientemente cristallizzata e consolidata nella conoscenza popolare che tutti la usiamo o la sentiamo dire senza farci troppe domande).

… e poi c’è “tirare avanti la baracca”, ma non è un’altra storia…

WU

PS. Scopro che l’equivalente inglese del modo di dire è un intrigante “keep body and soul together” ossia, “mantenere corpo e anima insieme”.

PPSS. E mi raccomando, “sbanCare il lunario” (cmq 17900 risultati su Google…) è sbagliato.

Le cose perdute (punto)

Una donna comprò il suo cappello
per avere una smorfia riparata
Un vecchio stravecchio passandole accanto
abbozzò un’espressione molto canuta

Ricordando l’amore perduto,
perduto in mezzo alla strada,
me ne vado, disse per la strada
come un autobus senza fermata.

con le sedie vuote e tutto il resto
verso il deposito mi appresto
senza tutto il resto
pazienza del resto.

Le moldave scoperte dal maestrale
quella sera cenarono in famiglia
nella luce di un telegiornale
in mezzo ad un padre una madre ed una figlia.

Sulle briciole della tovaglia
i Re Magi mangiavano a scrocco
un prete convinto dallo scirocco
ripensò a quello che aveva fatto

e trovandosi sotto il giudizio
nè di un Dio nè di un tribunale
disse vino al vino pane al pane
era meglio andare a puttane.

Nella giungla scomposta del letto
una donna senza un difetto
si incastrò dentro ad una ruga,
scelse la morte come unica fuga.

Nel girone dei rivoltosi
comunisti pieni di baffi
rigirandosi verso la bora
sentirono il vento prenderli a schiaffi

e per non dargli la soddisfazione
fecero finta di non sentire
chi strinse i denti, chi i pugni
chi il rosario prima di morire.

Un giovane marinaio
nel mare che fa paura
si travestì da scimmia ridente
dentro al libeccio di una puntura.

Si svegliò sopra uno scoglio
a contemplare le proprie idee
aspettò il vento ma passò l’onda
tinse di lacrime tutte le vele.

Oggi ho “scoperto” questa canzone, nel senso che mi sono soffermato tre minuti ad ascoltare le parole oltre la melodia (come sempre un misto fra musiche balcaniche e “stile osteria”, ma in fondo non mi dispiace) ed interrogarmi sul loro significato. Non sono certo di averlo colto, ma sono sicuro che le parole non siano state messe a casaccio.

Cappelli comprati per nascondere emozioni, ricordi di vecchi amori, autobus (umanizzati?) predestinati al loro deposito, spaccati di vita quotidiana che sfamano figure cristiane, qualche accenno po’ blasfemo (per chi vuole leggerlo così), pentimenti da “vino al vino e pane al pane”, letti che sono giungle e la morte come fuga. I comunisti (rivoltosi) sono pieni di baffi e la bora li prende a schiaffi mentre dissimulano la sofferenza con un rosario; una puntura (di chissà cosa) trasforma un impaurito marinaio in scimmia ridente finché l’onda (e non il vento) non tinge di lacrime tutte le vele.

Mi da l’idea di una carrellata di situazioni al limite dell’assurdo nelle quali il pentimento, il ripensamento, il dubbio la fa da padrona. A tutti i livelli, per tutti coloro che hanno avuto almeno l’ardire di fare una scelta. Mi da l’idea di un qualcosa che immancabilmente deve essere sporco e pulito allo stesso tempo, proprio come una scelta. Ed alcune cose, altrettanto inevitabilmente, che sfuggono dalle maglie della scelta: le cose perdute, e non abbiamo un ufficio “lost&found” al quale rivolgerci.

Pazienza per il resto.

WU

Che lingua si parla in Papua Nuova Guinea?

Non sono partito, solo per esser sincero, da questa domanda, ma dopo essermi imbattuto in questo grafico a barre sono rimasto incagliato nella domanda: che lingua si parla in Papua Nuova Guinea? Anzi… quante?!

Intanto definiamo cosa sia una lingua “viva”: ogni lingua in un dato Paese per cui esiste almeno un parlante che la consideri la sua madrelingua; ne risultano ovviamente escluse le “lingue morte” e quelle parlate come seconda lingua.

Su questo presupposto, le lingue che si parlano nel mondo sono 7.139. Nel 2021, dato che la definizione stessa di lingua presuppone una certa fluidità nel computo. Aggiungiamo anche che oggi circa il 40% delle lingue conosciute è in pericolo di “estinzione” e che metà della popolazione mondiale parla solo 23 lingue (e 160 pare abbiano meno di 10 parlanti…). La lingua più parlata al mondo (qui forse avrei risposto correttamente ache nella mia ignoranza): mandarino cinese, circa 1000 milioni di parlanti al mondo.

Ciò detto, in Papua Nuova Guinea si parlano tre lingue ufficiali (inglese, tok-pisin e hiri-motu) a cui poi si aggiungono altre 837 lingue locali. Il risultato è che ne paese si parla circa 11.7% di tutte le lingue parlate del globo! Una incredibile varietà linguistiche che se raffrontata al numero di abitanti dell’isola fa sì che nel paese vi sia una media di soli 7.000 parlanti per ogni lingua diffusa. La ragione profonda potrebbe essere nella topografia del territorio che fra monti, valli e boschi ha consentito a diverse popolazioni locali di rimanere isolate fra loro ed al riparo dai colonizzatori Europei.

L’Indonesia (altro inaspettato paese da podio per la mia ignoranza) è abbastanza staccata, con sole 712 lingue… anche queste tutte autoctone. Lo stesso vale anche per Nigeria (che completa il podio) ed India (per quanto enorme e popolosa “solo” circa la metà delle lingue parlate in Papua Nuova Guinea). Per trovare un influsso impatto rilevante delle lingue “importate” dobbiamo arrivare al quinto e sesto posto, Stati Uniti ed Australia.

Un breve excursus socio-linguistico-geografico che mi porta a pensare che è in fondo la nostra stessa diversità, come esseri umani, ad esser messa a rischio dalla globalizzazione, dalla colonizzazione e dalla foga di “aiutarci”. Chissà se non sia questo il vero bene da difendere.

WU

PS. Portando la questione ad una dimensione più domestica: quante lingue si parlano in Italia? Rispondere una è da superficiali. Sempre secondo Ethnologue le lingue italiane sono 43. Ed attenzione, questo numero non è il risultato dell’ondata migratoria che stiamo vivendo: di queste lingue 35 sono indigene e solo 8 quelle “di importazione”.

Un NDA?

E, purtroppo, a livello più o meno formale, mi pare che la cosa stia prendendo piede sia nelle relazioni esterne che in quelle interne.

Come se un foglio di carta sostituisse la fiducia in qualcuno. E’ chiaro che parlare di temi delicati, sia all’interno sia all’esterno di un’organizzazione, ci espone ad un rischio di “fuga di informazioni”. Ma d’altra parte senza prendersi alcun rischio è difficile andare avanti. Ed un non-disclosure-agreement pare essere diventato oggi il palliativo per non prendersi troppi rischi, o almeno illudersi di cautelarsi.

Intendiamoci, non sono contro in todo allo strumento, ma di strumento si tratta e di conseguenza la sua funzionalità non può che esser subordinata ad un giusto utilizzo piuttosto che ad un uno indiscriminato solo per cercare di pararsi i fondelli ad ogni piè sospinto.

Come se poi con un NDA ci immaginiamo che l’interlocutore sia vincolato a mantenere la riservatezza credo che dobbiamo scindere il piano formale da quello fattuale. Certamente l’accordo vincola le parti ad una divulgazione delle informazioni limitata, ma sappiamo che informalmente le informazioni circolano molto più di quanto non fanno formalmente. Essendo, inoltre, l’informazione un preziosissimo bene immateriale (a meno di non venderlo come la recente Scultura invisibile venduta di Garau… ed in base all’informazione specifica certamente varrebbe anche di più), basta modificarlo un po’, omettere qualche pezzo (spesso la fonte) e condirlo con un po’ di aggiunte personali che siamo liberi da NDA, o quanto meno ci sentiamo tali.

Fatemi anche dire che (e qui ammetto una mia certa presa di posizione…) l’impressione che mi trasmette chi subitaneamente si trincea o propone un NDA (o un suo uso massiccio!) è che di informazioni sensibili (leggi anche interessanti) da divulgare ne abbia ben poche.

WU (sotto NDA)

PS. Riflessioni ovviamente motivate da questo Dilbert di qualche giorno fa.

Al bando le bare!

Longyearbyen è un paesino della Norvegia, la città più popolosa delle isole Svalbard con i suoi circa 2.144 abitanti. Stiamo parlando di uno degli insediamenti umani più a nord del globo, all’interno del circolo polare Artico. Longyearbyen nacque come un villaggio di minatori e fu distrutto e ricostruito a seguito della WWII, ed oggi ospita una sua università, aeroporto internazionale, musei, ristoranti ed alberghi (i suoi 2144 residenti arrivano ad ospitare 65000 turisti l’anno!). Insomma una cittadina a tutti gli effetti.

Tuttavia se fa freddo, ma tanto freddo, c’è una cos che è difficile fare a Longyearbyen, anzi che è stata proprio formalmente proibita dal locale governatore: morire. O meglio: esser sepolti (ma dire che è vietato morire fa più scena, chissà se lo usano anche con i turisti).

Longyearbyen aveva un solo cimitero che è stato chiuso attorno al 1940 a seguito del rilevamento del fatto che i corpi in esso sepolti nel 1918-1920 non solo non si erano decomposti, ma portavano ancora tracce del virus “ancora attivo” della spagnola che li uccise. E dato che (in tema di epidemie, così tanto attuale…) la Spagnola uccise in quegli anni migliaia di persone (si stima un 5% della popolazione mondiale) l’amministrazione ha voluto e vuole tuttora evitare di correre rischi.

Le temperature del suolo (fra i -20 ed i -30 gradi in inverno… neanche le più rigide del globo in quanto mitigate dalla corrente del Golfo), la struttura stessa del suolo, costituito in gran parte da permafrost, ed i ghiacci praticamente costanti (mi immagino sia anche arduo andare a trovare i propri cari deceduti…) rendono le temperature all’interno delle bare così rigide che la normale decomposizione dei corpi avviene troppo lentamente e con essa la distruzione/inattivazione di eventuali organismi patogeni.

Per questo motivo tutti gli abitanti di Longyearbyen sono obbligati ad avere una doppia residenza, una sull’isola e l’altra sulla terra ferma dove saranno sepolti, ma dove si possono anche trasferire per la vecchiaia e l’eventuale necessità di cure (sull’isola c’è solo un ospedale per le emergenze…). Ovviamente dato che sull’isola è “vietato morire” deve esser vietato anche nascere… le partorienti sono obbligate a trasferirsi sulla terraferma tre settimane prima del parto, proprio per poter ricevere tutta l’assistenza del caso

Non so se è un posto in cui vivere (deve avere di certo i suoi vantaggi/svantaggi stare a 1000km dal polo, oltre che un innegabile fascino), ma di certo non è il posto giusto per morire (direi che i suoi abitanti si saranno abituati a non essere troppo legati alla loro terra).

WU

PS. Pare che fra le altre leggi bizzarre di Longyearbyen vi sia il bando dei gatti che metterebbero a rischio la popolazione di uccelli artici, il fatto di doversi togliere le scarpe in ogni edificio e quello di esser obbligati a saper maneggiare un fucile e girare armati (fuori dall’area metropolitana) per difendersi dagli (abbondanti e fra le prime cause di morte fra gli abitanti del luogo) orsi polari.

PPSS. Ci metterei questo bra qua

La Finlandia? Bugia!

Questa non la conoscevo, ma devo dire che ha velocemente scalato la mia personale classifica “cazzate geniali”. Potrebbe essere una teoria del complotto da far impallidire i terrapiattisti e la pac-man theory.

Nel nord Europa esiste un paese, la Finlandia. Esiste? Siete sicuri? Ne avete le prove? Non dite che c’è sul mappamondo o che ve lo hanno insegnato a scuola, altrimenti siete lontani dalle basi del complottismo 4.0…

La Finlandia, infatti, non esiste. E’ tutta una messa in scena, una ricostruzione fittizia orchestrata da Russia e Giappone. Sul finire della seconda guerra mondiale, infatti, i due paesi (che si affrontavano in due fazioni opposte della guerra, ma che conservavano ottimi rapporti… questo va detto) hanno capito che il mar del nord era una eccezionale riserva di pesce che non avevano nessuna voglia di condividere con altri paesi. E da li l’idea geniale: mettiamoci una intera nazione (tanto chi vuoi che vada a verificare!) così da poterci spartire il pescato del Baltico in tranquillità, magari senza doversi preoccupare degli ambientalisti di nessuna sorta! (Ma poi chi l’ha detto che il Baltico esiste?).

Sapete come si dice pinna in Inglese (questo è vero)? Fin. Da cui, ovviamente Finlandia identifica una riserva di pesca. Convincente, no? Pare che anche gli idiomi Giapponese-Finlandese siano molto più simili di quanto ci si aspetterebbe

Non fatevi ingannare neanche dalla storia! Anche se nel 1917 la Finlandia si è staccata dalla Repubblica Sovietica e dal 1955 è parte dell’Unione Europea è tutta una menzogna. Anche gli stessi Finlandesi ne sono vittime! … quindi ne deriva che… i finlandesi non esistono (e quelli che conoscete -tanti, vero?- vi stanno mentendo, forse sono rettiliani) “vivono in cittadine nella parte orientale della Svezia, la parte occidentale della Russia o la parte nord dell’Estonia”. Ah, anche Helsinki è in Svezia.

La teoria si completa poi di interessanti particolari. Il vero motivo che portò alla costruzione della transiberiana era proprio quello di trasportare il brande pescato del Baltico in Russia senza dare troppo nell’occhio. Poi ci hanno messo i passeggeri come ulteriore diversivo. La Nokia, principale produttore di telefoni finlandese (ammesso che esista la nazione figuriamoci l’azienda…) ha proprio il Giappone come principale mercato… eppure pochissimi giapponesi pare (pare, pare) posseggano un Nokia. E certo, un’altra copertura per esportare pesce! Ora si che torna tutto.

A parte l’evidente genialità della cosa, questa teoria è venuta fuori da un utente Reddit che ha poi “spiegato” che è un po’ tutta una bufala ed ha “convito” dello scherzo il 90% degli utenti che lo seguivano… ma non dimentichiamoci un 10% di gente che crede ancora che la Finlandia è (un’altra) menzogna dei poteri forti!

POi, se volete leggere la teoria, in senso “positivo” la Finlandia è una nazione spesso al primo posto come qualità della vita, energie rinnovabili, sanità, libertà di stampa, basso livello di corruzione, etc. Praticamente non può essere una nazione, ma un ideale a cui tendere! Ovvio.

WU

PS. In pieno stile complottista-fonti-certificate-ed-affidabili trovate liberamente le vostre referenze. No, un viaggio in terra finlandese non è sufficiente :).

Mio caro soffiafoglie

Onestamente non mi ci ero mai soffermato. E’ vero che un po’ tutto ha un prezzo e quando si parla di tecnologia il prezzo lo paga tipicamente la natura, ma… onestamente non ci avevo mai pensato.

Avete presenti quei grossi tuboni ca sui esce aria (e rumore) che servono per spostare le foglie, erba tagliata, etc. (funghi e muffe potenzialmente pericolosi)? Si, i soffiafoglie che sono oggi diventati uno strumento “standard” non solo dei giardinieri, ma di praticamente chiunque possegga un albero o un appezzamento di terra.

In breve, il soffiafoglie è molto meno innocuo di quel che sembra, anzi è potenzialmente una tragedia:

  • fa casino: il soffiafoglie economici o di fascia media raggiungono i 112 dB (gli altri 80-85 dB, mica poco…) di rumore, circa quanto un aereo al decollo… solo che non dura pochi minuti, ma addirittura ore (beh, dipende da quante foglie dovete spostare…). I danni all’udito possono essere importanti; i giardinieri “professionisti” li usano infatti con debite protezioni (cuffie), ma in molti lo soffrono “passivamente” durante i lavori di manutenzione, e senza aver la possibilità di proteggersi (abitanti delle case vicine, esercizi commerciali, etc.). Inoltre è un tipo di rumore a bassa frequenza che NON si attenua in maniera significativa con muri ed ostacoli: ci raggiunge fin dentro casa e si ficca nel cervello. Non esiste, per quel che so, un regolamento che li vieta, ma è altamente sconsigliato esporsi a suoni intensi (oltre i 60 dB!), per troppo tempo.
  • inquina: la stragrande maggioranza dei soffiafoglie in commercio ha un piccolo motore a scoppio (con “il filo” non ne ho mai visto nessuno…) che produce PM10: le particelle più piccole che possono essere facilmente inalate (sempre i giardinieri “esperti” usano cuffie e mascherina) e che contribuiscono in maniera importante al livello di inquinamento ambientale. Il soffiafoglie produce anche monossido di carbonio (come le macchine) che si lega all’emoglobina del sangue rendendo difficoltosa (e certamente poco salubre) la nostra respirazione. Inoltre, in base alla qualità dell’oggetto, fino ad un terzo del combustibile necessario al suo funzionamento è liberato in aria sotto forma di aerosol
  • è incontrollabile: i soffiafoglie soffiano su quel che trovano. Possono sollevare foglie, ma anche polvere, terra, pesticidi, ed ancora muffe, virus, batteri e microbi che restano in sospensione nell’aria anche per ore dopo che “la macchina infernale” ha smesso di soffiare. I soffiafoglie di solito non vengono spenti fra un’operazione e l’altra, continuano a soffiare a regime ridotto anche quando l’operatore non lo sta effettivamente usando. A questo ci aggiungiamo che i soffiafoglie sono anche spesso usato in maniera impropria, i.e. usarli per togliere la polvere dalle strade non è una cosa geniale…

Inquinante, inefficiente, rumoroso, sembra sporcare più di quanto pulisca, eppure di larghissimo utilizzo. E’ chiaro anche ad occhio, che è uno strumento altamente inefficiente (la termodinamica non mente: convertiamo una forma semi-pregiata di energia in una poco nobile e ad alta entropia, un po’ di aria in movimento), ma il fatto che oggi siamo qui a parlarne è perché il buon, vecchio, stancante (soprattutto), rastrello fa parte del passato.

WU (che non ha un soffiafoglie e non per motivi ecologici)

Where’s your million-dollar bonus?

confesso che è un po’ che latito dalle strisce di Dilbert, e non perchè non continui a trovarle acute, attuali o amaramente ironiche, ma perchè a volte mi deprimono. Mi continuo a chiedere se Dilbert mi osservi, se certe dinamiche lavorative possano essere mai scardinate e se a parte far ridere il lettore in alcune situazioni anche il buon Dilbert non vorrebbe sbottare.

Ad ogni modo questa la trovo veramente divertente, prima che intelligente. Fino all’ultima vignetta mi sfuggiva in effetti lo scopo del Boss (anche se escludevo la sua buona fede). Diciamo che mi sento moralmente affine a Dilbert per la mia incapacità di scovare per tempo la fregatura che però tendo ad annusare e che puntualmente si palesa… troppo tardi.

Ovviamente in una situazione reale avrei potuto, chessò: chiede un impegno scritto (tanto inutile quanto difficile da ottenere), andare a “battere cassa” prima di aver effettivamente finito il lavoro (avrei sgamato la truffa, ma credo avrei comunque dovuto finire il lavoro… ed anche con l’amaro in bocca), fare una analisi logico-grammatica accurata della “promessa” (con il risultato di perdere ulteriore tempo sulla scadenza e forse sapere che mi aspettava una fregatura). In ogni caso “il diavolo è nei dettagli” è un monito che non da sempre la risposta (non la da proprio, non solo giusta…) ma mette sempre in guardia.

Un po’ di genialità, non guasta mai… Chissà (ora esagero, pronti?!) se anche la nostra/mia vita non sia una striscia di fumetti che fa dilettare qualcuno.

Per ogni problema maledettamente complesso, costoso e che richiede molto tempo esiste sempre una risposta semplice, economica, veloce e sbagliata. Teniamolo a mente.

WU

Giovani Charlie

Vorrei morire a questa età
Vorrei star fermo mentre il mondo va
Ho quindici anni
Programmo la mia drum machine
E suono la chitarra elettrica
Vi spacco il culo
È questione d’equilibrio
Non è mica facile
Charlie fa surf, quanta roba si fa
MDMA
Ma ha le mani inchiodate
Se Charlie fa skate, non abbiate pietà
Crocifiggetelo, sfiguratelo in volto
Con la mazza da golf
Alleluja alleluja
Mi piace il metal R’n’B
Ho scaricato tonnellate di
Filmati porno
E vado in chiesa e faccio sport
Prendo pastiglie che contengono
Paroxetina
Io non voglio crescere
Andate a farvi fottere
Charlie fa surf, quanta roba si fa
MDMA
Ma ha le mani inchiodate da
Un mondo di grandi e di preti, fa skate
Non abbiate pietà
Una mazza da baseball
Quanto bene gli fa
Alleluja alleluja
[Charlie Fa surf, Amen, Baustelle, 2008]

Un misto (o entrabi?) fra ribellione adolescenziale (non èmica facile fare i quindicenni, oggi più di prima e domani più di oggi) e condanna del qualunquismo imperante (che mi pare colpisca ancor di più chi si illude di differenziarsi con un certo tipo di canzoni, termini, atteggiamenti). Un po’ tutti uguali anche nel momento dell’anticonformismo.

Una sorta di crasi fra la sensazione (a volte certamente reale) di una libertà adolescenziale negata ed il vero ingabbiamento operato (molto più subdolamente) da una società che ci vuole (o di certo a quell’età lo percepiamo così) tutti un po’ omologati, anche quando vogliamo fare gli alternativi.

In ambo i casi, e a maggior ragione nella vera interpretazione che nella mente dell’autore avrebbe, un capolavoro.

WU

PS. Il titolo nasce dall’opera di Cattelan, “Charlie don’t surf” che rappresenta un ragazzino (Charlie, appunto, quello che si vede nel video) inchiodato a un tavolo scolastico per mezzo di due matite. Ah, ed ovviamente per il titolo ci si rifà al tenente Kilgore (Apocalypse Now, Coppola, 1979… se fosse necessario) che ama fare surf in zone di guerra. Cosa negata ai Charlie (Victor Charlie = VC = Viet Cong).